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Terapia insonniaIgiene mentale del sonno: insieme di accorgimenti e di strategie che possono migliorare in maniera naturale la qualità e la quantità del sonno

Bisogna tener presente che spesso il mantenimento o il peggioramento dell’insonnia è determinato sia dalla scarsa conoscenza della complessità di questo stato, sia - e soprattutto - da una serie di tentativi che, messi in atto dal paziente per ovviare al problema, non solo sono fallimentari, ma spesso diventano causa di ulteriori complicazioni.

Il punto fondamentale che permette di instau¬rare un corretto programma di igiene mentale è conoscere esattamente la natura, la durata, la causa e l’entità del disturbo. Questo non è sempre facile perché l’insonnia, come altri disturbi a carattere cronico e ripetitivo (come l’ansia, la cefalea etc.), pur comportando notevoli disagi al paziente, non sembra stimolare in questi un’autoricerca o perlomeno un’attenzione specifica. È singolare che questi pazienti difficilmente riescano a fornirci un quadro esauriente e completo del loro disturbo: in genere si limitano ad accennare a questo fenomeno senza alcun altro particolare, spesso confondono le cause con gli effetti e forniscono dati comunque poco attendibili circa la quantità effettiva delle ore di sonno. È di fondamentale importanza, quindi, che il medico cerchi di attirare l’attenzione del paziente sui numerosi fattori in causa, facendogli rilevare quei dati che direttamente o indirettamente possono influenzare questo disturbo. Quando la difficoltà del paziente a concentrare la propria attenzione su questo disturbo è molto elevata, può essere necessario proporgli di trascrivere, su di un diario quotidiano, tutti quei dati che serviranno poi al medico per porre una diagnosi e di insonnia, e di quale tipo di insonnia.
Un primo problema da affrontare è comprendere il significato relazionale del sintomo, ovvero a cosa serve e come viene utilizzato nel contesto familiare e/o sociale. Sul piano fenomenologico, questo si può evidenziare già da come il paziente presenta il sintomo: se è uno dei tanti sintomi “offerti” o se è l’unico sintomo “offerto”. Nel primo caso, nel corso del colloquio il paziente tende rapidamente a spostare l’attenzione su altre problematiche e conflittualità più vitali ed essenziali. Nel secondo caso, invece, l’insonnia diventa il leit-motiv di un colloquio spesso monotono e ripetitivo che rivela che il sintomo è utilizzato come utile secondario, il che rende necessario considerarlo all’interno della globalità dell’individuo e delle problematiche familiari.
Il secondo problema è vagliare l’importanza che il paziente dà all’insonnia nella sua economia psichica globale, e se desidera risolverla. Molti pazienti non sembrano mostrare, accanto ad una dovizia di particolari del disturbo, altrettanta voglia o speranza di poterlo affrontare: l’insonnia viene considerata come un destino, convinzione che spesso viene rinforzata se nell’ambito familiare ci sono o ci sono state altre persone affette da analogo problema.
Comunque bisogna tener presente che l’insonnia cronica non è un problema di facile soluzione: questa spesso comporta una sua svalutazione o negazione sia da parte del medico che del paziente stesso. Per meglio comprendere come affrontare l’igiene mentale del sonno, dobbiamo considerare che esso si pone come una “cerniera” tra la veglia del giorno precedente e quella del giorno seguente. Infatti, se il sonno viene considerato come apportatore di ristoro per le fatiche quotidiane affrontate, viene anche atteso come portatore di forze e di energie per il giorno seguente. Non è un caso che spesso una delle paure più frequenti concernenti l’insonnia è il timore della stanchezza e dell’inefficienza del giorno successivo. Ora, una delle principali funzioni del medico sarà proprio quella di sfatare questa “ossessione”, ovvero far comprendere che una notte insonne (ed in genere si tratta non di un’insonnia totale, ma di alcune ore di sonno in meno) non influisce che minimamente sulla attività del giorno dopo, a meno che il paziente non si trovi già in una cronica situazione di debito di sonno.
Comunque questa preoccupazione, spesso per via autosuggestiva, fa sì che il paziente si senta molto più stanco del dovuto e cerchi di trovare parziali soluzioni (come riposi pomeridiani o una sorta di abulia permanente) che peggiorano la situazione: infatti, alla sera il soggetto non avrà quella carica di stanchezza che gli permetterà di recuperare il sonno. In questi casi bisogna tener presente che mediamente, ed ove non ci siano cause patologiche, il sonno tende ad autoregolarsi. Se si avesse la pazienza di attendere, molte insonnie resterebbero saltuarie e non rischierebbero di trasformarsi in insonnie croniche.
In questo capitolo cercheremo di porre alcuni quesiti fondamentali e di darvi risposta, basandoci sulle conoscenze sicuramente accertate. E' evidente, comunque, che qualsiasi piano o strategia terapeutica deve essere concordata e seguita dal medico ed è solo dopo aver capito alcune regole fondamentali ed aver ottenuti i primi risultati che il paziente può iniziare la fase del “do it yourself”.

A) A che ora dormire:
Può sembrare una domanda banale, ma per dare una risposta corretta dobbiamo tener presenti alcuni dati essenziali riguardanti il sonno.
Il sonno, per quanto sia un meccanismo endogeno, è strettamente condizionato da fattori esterni. Si è accertato con sicurezza che la popolazione nord-americana, dopo la scoperta dell’illuminazione elettrica, dorme mediamente un’ora in meno rispetto agli antenati e che c’è uno spostamento in avanti dell’orologio interno di circa 1-2 ore.
Inoltre bisogna tener presente che l’orologio interno che controlla il sonno può sfasarsi rispetto all’orologio che condiziona le altre funzioni biologiche: questo può creare problemi di non facile soluzione. Bisogna altresì tener presente che il ritmo circadiano sottostà a delle oscillazioni fisiologiche collegate con l’età. Possiamo affermare che mentre il ritmo circadiano fino a 35-40 anni è ritardato di circa 1 ora (il che vuol dire che fino a quest’età si tende ad andare a letto più tardi di circa 1 ora rispetto agli orari medi), lo stesso ritmo, a partire dai 50 anni, comincia ad anticipare di circa 1 ora (il che vuol dire che il soggetto anziano tende ad andare a letto 1 ora prima dell’orario usuale sociale). Tenendo conto, quindi, dell’interazione di fattori endogeni e sociali, possiamo affermare che mediamente l’orario giusto per andare a dormire dovrebbe oscillare intorno alle 22.00-23.00, dando così la possibilità di una durata di sonno di circa 7 ore e mezza.
Ma non sempre questo è attuabile: comunque variazioni di orario che siano limitate nel tempo non sortiscono effetti negativi proprio per la capacità del sonno di autoregolarsi. Ma per aiutare quest’autoregolazione bisogna cercare di mantenere quanto più è possibile un sincro¬nismo stabile tra orologio interno e zeitgeber sociali. Citiamo come esempio della possibilità di disregolazione di questo sincronismo il feno¬meno che viene definito “1’insonnia della domenica sera”.
Molte persone, alla fine della settimana lavorativa (che per molti coincide con il venerdì), ritengono giusto godersi un po’ più di tempo alla sera e quindi posticipare di 2-3 ore l’orario abituale dell’addormentamento, anche perché possono recuperarlo al sabato mattino svegliandosi più tardi. Se la stessa cosa si ripete nella giornata di sabato sera e domenica mattina, il soggetto si accorge improvvisamente che la dome¬nica, andando a letto alla solita ora, è ben sveglio e non ha alcuna voglia di dormire. Che cosa è successo? Nei due giorni precedenti, il ritmo circadiano si è ritardato di circa 2-3 ore per cui la domenica sera andare a dormire alla solita ora, ad esempio le 23.00, è come se fossero le 20.00: in effetti un orario da galline. Questa particolare forma di insonnia ci permette di parlare di altre due situazioni che hanno la caratteristica di svilupparsi in un giorno particolare della settimana e che in genere non costituiscono dei veri disturbi del sonno.
Una è l’ipersonnia del venerdì sera. Molte persone presentano alla fine della settimana lavorativa un intenso bisogno di sonno che si esplicita sia con un anticipo dell’ora in cui si va a letto, sia con un numero maggiore di ore di sonno. In questi casi è da sospettare che ci sia un certo debito di sonno da stress lavorativo che va tenuto presente come possibile spia di una vera futura insonnia. In questi casi va esplo¬rata attentamente la qualità del lavoro del soggetto che spesso si trova in una situazione di stress. Se a questo sintomo si accompagna anche una difficoltà di risveglio il lunedì mattina, è segno che il paziente è già ai livelli di guardia.
Ma a volte succede qualcosa di molto diverso: è l’insonnia del venerdì sera. Il soggetto che ha dormito bene durante tutta la settimana, il venerdì notte (o il sabato notte) presenta insonnia. Ben diversamente, quindi, da chi ruba delle ore di sonno per fare qualcosa di diverso e piacevole. Questi, invece, va a letto regolarmente e magari spera in un riposo ristoratore che però si fa attendere a lungo. E in genere un’insonnia caratterizzata da difficoltà di addormentamento, più raramente da risveglio precoce. In questi casi dobbiamo esplorare attentamente la situazione familiare: c’è sicuramente una conflittualità interpersonale - più o meno conscia - che viene coperta durante la settimana dall’attività lavorativa. Ma è sufficiente un giorno festivo perché il meccanismo non funzioni e la conflittualità riemerga con il sintomo dell’insonnia. In questi casi è evidente che bisogna esplorare direttamente tutte le aree di conflittualità del soggetto, con particolare riferimento a situazioni emotive c/o familiari. Dopo aver evidenziato brevemente alcune situazioni peculiari, cercheremo di rispondere al quesito che ci siamo posti all’inizio.
In linea di massima, quest’orario dovrebbe essere il risultato di una media di vari fattori: endogeni, sociali, lavorativi, familiari etc. Una volta individuata, anche per tentativi ed errori, quale è la fascia oraria migliore, bisognerebbe cercare di mantenerla stabile. Parliamo di fascia oraria, non di orario, intendendo quindi uno spazio di tempo che oscilli tra i 30-90 minuti ed il cui mantenimento può essere facilitato da una serie di zeitgeber personali sociali. Comunque non dobbiamo sottovalutare alcuni messaggi che il corpo può inviarci per segnalarci il bisogno di sonno. Tra questi dobbiamo considerare lo sbadiglio. Non si conosce con esattezza il meccanismo dello sbadiglio, ma sappiamo che esso compare più frequentemente nell’ora successiva al risveglio o in quella che precede o dovrebbe precedere l’addormentamento. In effetti, c’è una differenza: quello mattutino è accompagnato da movimenti di stretching e pertanto si pensa che dovrebbe favorire il risveglio. Comunque lo sbadiglio è più facilmente accompagnato da uno stato di sonnolenza o di noia: quindi dovrebbe avere a che fare con la diminu¬zione dello stato di veglia e con la facilitazione dell’addormentamento. Un altro dato particolare è la contagiosità dello sbadiglio. Quindi si potrebbe pensare che lo sbadiglio possa segnalare l’ora di andare a letto, e che «lo sbadiglio sia servito a coordinare da un punto di vista tempo¬rale il comportamento legato al sonno di un gruppo, accomunando tutti i componenti in vista dell’imminente riposo notturno; questo era molto importante una volta, quando era meglio per tutti se le persone dormi¬vano insieme e si svegliavano insieme, perché si arrecavano meno disturbo vicendevolmente» [1].
Anche se oggi questo segnatempo può aver perduto molto del suo valore, sul piano individuale non andrebbe ritenuto come superfluo, nel senso che esso, soprattutto se protratto, potrebbe essere un segnale da tener presente in ordine ad un bisogno di sonno.

B) Il luogo dove si dorme

«Io vivere vorrei
Addormentato
entro il dolce
rumore della vita»

Questi versi di S. Penna esprimono poeticamente il desiderio di molti soggetti che riescono a dormire solo se si sentono al centro di una situazione di movimento e di vita, mentre si angosciano al buio e nel silenzio totale. Questo desiderio è sicuramente molto infantile: è il sonno del bambino che giunge tanto più facile se gli adulti gli segnalano la loro presenza. Con il passare del tempo questo bisogno-desiderio viene meno, e più facilmente si tende a far coincidere il sonno con il silenzio ed il buio. Comunque per il sonno vale una regola aurea: qualsiasi modalità va rispettata se è in grado di favorire il sonno del soggetto; anche quando certi comportamenti, per durata e modalità, assomigliano vagamente ad un cerimoniale. Il bisogno di cui si parlava poc’anzi sembra essere soddisfatto in molte persone adulte o anziane dalla presenza, per esempio, della TV o di una radio che a basso volume viene lasciata accesa per la durata dell’intera notte. Comunque in media sono piuttosto il buio ed il silenzio a favorire il sonno: in questo senso è opportuno che la camera da letto sia sistemata in modo tale da posse¬dere facilmente questi due requisiti. Molte cose sono state dette sui vari accorgimenti e sulle diverse strategie da attuare per sistemare al meglio la camera da letto. Crediamo che sia utile tener presenti due fattori che sono collegati strettamente con la fisiologia del sonno. È opportuno che la camera da letto sia areata e soprattutto che mantenga una tempera¬tura media sui 15-18°C: il freddo può essere meglio combattuto con un buon piumone piuttosto che con una temperatura eccessiva dell’ambiente. Infatti bisogna sapere che durante la notte, mediamente, un individuo sano traspira una quantità di sudore pari circa ad 1 litro. È questo un dato che deve farci capire la necessità di mantenere nella stanza una bassa temperatura ed una buona aereazione e la negatività di una camera da letto ove il caldo ed il sudore la trasformano in una sorta di sauna. Anche in riferimento a questa particolarità diventa razionale utilizzare materiale naturale e non sintetico sia per l’abbigliamento che per il letto: il materiale sintetico infatti tende ad ostacolare la traspirazione. Per quanto riguarda la durezza del letto esistono ormai da anni reti e materassi ortopedici che uniscono la rigidità ad una flessibilità compatibile con un buon riposo per la colonna vertebrale. Ma a volte il problema principale non è nell’attrezzatura della camera da letto ma nelle persone che la occupano. Un problema che troppo spesso viene sottovalutato è l’impossibilità per molte persone di riuscire a dormire accanto ad un altro, spesso in uno spazio estremamente ristretto. Questo disagio può avere varie origini: o perché il partner russa, o perché si muove frequentemente durante la notte, o perché si sveglia spesso; per questi e per tanti altri motivi, ma anche per uno semplice e banale: che il dormire nel letto matrimoniale non ha alcuna motivazione razionale e ragionevole, se non per il fatto che è un’abitudine, anche se questa spesso nasconde un bisogno di coprire angosce di solitudine. Molto spesso si risolve facilmente un problema di insonnia (che a volte è diventata cronica) con il semplice consiglio ai due partner di andare a dormire in stanze separate o almeno in letti separati. Questa soluzione che sembra banale deve essere proposta dal medico, con motivazioni mediche e con delicatezza. È molto facile che una proposta del genere venga vissuta da uno dei partner come un’offesa mortale. Comunque, meglio rompere un matrimonio che soffrire di insonnia.
Avevamo accennato che a volte alcuni pazienti, prima di recarsi a letto e quindi iniziare la fase di addormentamento, debbono eseguire dei veri cerimoniali. Dai racconti dei pazienti emerge che spesso ognuno ne ha uno proprio, più o meno complesso, più o meno lungo, ma che alla fine ha una sua funzione, probabilmente operando come situazione di rilassamento. Dal lavarsi i denti a lungo, al mettere a posto la biancheria, a prendere una tisana calda, a leggere poche pagine di un libro etc.
Riteniamo che questi cerimoniali vadano rispettati ed in alcuni casi addirittura rinforzati; ma spesso, nonostante le migliori intenzioni, il sonno non arriva. A questo punto dobbiamo esaminare il problema da due punti di vista. Il primo riguarda il cosa fare o il cosa non fare durante la notte. Il secondo riguarda invece tutte quelle attività e comportamenti della giornata che potrebbero incidere negativamente sull’addormentamento. Vediamo che cosa succede dal momento che il soggetto comincia a pensare che forse non potrà dormire. Diciamo che già da quel momento il soggetto ha innescato un pericoloso processo di autoconvincimento che suscita una reazione di ansia e di allarme tale da aumentare lo stato di vigilanza a discapito di un naturale addormentamento. Il paziente deve sapere che l’addormentamento, eccetto rari casi, non coincide mai con l’andare a letto. Questo tempo, che può variare da persona a persona, ma che in genere è stabile per ogni persona in condizioni normali, si aggira dai 10 ai 30 minuti.
E in questo periodo che può cominciare a sorgere il timore dell’insonnia, perché il paziente non accetta che l’addormentamento è un processo lento e graduale e non è così repentino come vorrebbe colui che teme l’insonnia.
Ben presto, a questa sensazione si aggiungono due fattori che peggiorano la situazione. Una è l’attenzione esasperata e spasmodica nei confronti di tutti quegli elementi che possono essere ritenuti disturbanti (rumori ciclici, luci, ticchettio dell’orologio), mentre l’altra è collegata al timore del giorno dopo: il soggetto pensa di non essere all’altezza della situazione, che soffrirà di sonnolenza continua etc.
Su questo punto è utile tener presente che, anche in una notte d’insonnia, alcune ore di sonno si recuperano comunque, ma soprattutto che anche una notte totalmente insonne non diminuisce di molto la capacità e le prestazioni del soggetto. Normalmente una notte insonne si recupera, dopo una giornata attiva, con una più lunga dormita durante la notte successiva; soprattutto se si evita di voler recuperare durante il giorno a tutti i costi le ore perdute con qualche ora di sonno pomeridiano che, al contrario, ha come unico effetto quello di alterare ulteriormente il ciclo del sonno. In questi casi può essere utile - se è possibile - prendersi 10-20 minuti di relax ogni 4-5 ore. Quello che bisogna evitare è di trasformare un’insonnia casuale, e magari ripetitiva, in un drammatico problema e soprattutto di voler dormire a tutti i costi. Quando ci si accorge che siamo ben svegli, nonostante l’ora notturna, è meglio comportarsi come se si fosse in pieno giorno. Può essere utile riprendere quelle attività, quei lavori o quei libri che non si sono potuti leggere durante il giorno: ad un certo punto il sonno, magari troppo tardi per le nostre aspettative, arriverà. Queste regole valgono per l’insonnia saltuaria e quindi facilmente affrontabile, ma se l’insonnia continua a persistere oltre, è necessario andare alla ricerca delle varie cause per cercare di eliminarle. In questo senso dobbiamo spostare la nostra attenzione sui fattori diurni che possono scatenare l’insonnia.


C) Fattori diurni che possono condizionare l’insonnia
La regola fondamentale è che si dorme quando si è ben riposati: questo apparente paradosso nasconde una verità più profonda, e cioè che se la giornata è vissuta in maniera troppo frenetica o se si ha uno stile di vita eccessivamente stressante è difficile arrivare alla sera e staccare di colpo questa attività per abbandonarsi al sonno. D’altra parte, per mantenere elevato il livello di veglia e di attività, spesso si usano sostanze (specialmente caffeina e tabacco) che esplicano una sicura azione di disturbo sul sonno. Frequentemente si ricorre anche all’uso e all’abuso di alcool sfruttandone l’effetto sedativo che apparen¬temente viene a conciliare (soprattutto verso sera) il sonno. Quindi ancora una volta ci ritroviamo nell’impasse che i tentativi di risolvere i problemi dell’insonnia spesso finiscono per aumentarli o sostenerli. Attività mentali o fisiche molto intense o prolungate possono agire negativamente sia sul tempo di addormentamento che sulla qualità del sonno. Se comunque queste attività non possono essere ridotte, sarebbe utile spostarle quanto più è possibile nella mattina o nel pomeriggio, onde dare all’organismo la capacità di ritrovare un equilibrio. In ogni caso ci sembra utile segnalare in questo paragrafo due situazioni che spesso creano disturbi del sonno: i turni di lavoro e la sindrome del jet lag.
Queste due sindromi sono indotte da cambiamenti artificiali del ritmo circadiano, cambiamenti che possono portare all’insorgenza di alcuni disturbi. Diciamo artificiali rispetto al caso di soggetti che, come è stato evidenziato negli ultimi anni, vanno incontro ciclicamente, in apparente assenza di cause esterne, a disturbi del ritmo circadiano. Sembra che si verifichi un avanzamento rapido del ritmo, tanto da arrivare nell’arco di 1-2 settimane ad invertire il giorno con la notte e poi di nuovo dopo altri 10-12 giorni tornare ad un ritmo normale.
È evidente che quando questi soggetti si trovano in fase di inversione non riescono a prendere sonno nelle ore notturne, perché il loro orologio interno è spostato su di un orario diurno. A parte questi casi abbastanza eccezionali, si è evidenziato con numerosi esperimenti che se un soggetto non ha ritmi sociali con cui sincronizzarsi (si vedano gli esperimenti nelle caverne dove si stabilisce un isolamento temporale) sviluppa ritmi particolari molto diversi da quelli abituali.
Una sperimentatrice ha vissuto in una situazione del genere per oltre 4 mesi: ad un certo punto il suo ritmo era quello di stare sveglia 23 ore e dormire poi per 10 ore di seguito. Ma a parte queste situazioni sperimentali non è infrequente osservare persone che per motivi di malattia o per mancanza di occupazioni nel corso della giornata possono instaurare un circolo vizioso tale per cui gradualmente il sonno e la veglia si distribuiscono uniformemente nell’arco delle 24 ore (studenti universitari, anziani, disoccupati).
Oltre a questi casi più particolari, ci sono numerose situazioni ove il ritmo circadiano viene alterato con una certa frequenza potendo comportare notevoli problemi, come nel caso dei turni di notte.
«Gli esseri umani sono strutturati per dormire la notte, non per lavorare. Possediamo il potenziale biologico per stare alzati e lavorare nei momenti in cui dovremmo dormire, ma in genere i nostri ormoni e i nostri ritmi sono configurati secondo uno schema che prevede la veglia durante il giorno... La civiltà moderna, tuttavia, si è trasformata in un luogo di azione continua tutto il giorno e tutta la notte. E molte persone, in modo innaturale, sono costrette a lavorare di notte. In parte, il lavoro notturno è inevitabile: di notte abbiamo bisogno che alcuni operatori (forze dell’ordine, sanitari) siano in attività... I ritmi circadiani sono fenomeni dalle regole delicate in cui si mescolano centinaia di funzioni corporee. Quando cambiamo turno di lavoro, ci vuole del tempo per ristabilire questo delicato equilibrio. Di solito sono necessarie almeno 2 settimane per adattarsi completamente all’inversione totale tra giorno e notte» [2].
Per ovviare ai numerosi inconvenienti che possono raggiungere anche forme gravi di narcolessia, si è visto che il modo migliore è quello di organizzare i turni ogni tre settimane: questo tempo permette un più corretto recupero. Quando non è possibile e bisogna attuare turni settimanali, è dimostrato che il modo migliore è quello di ruotare in senso orario, tenendo conto che in genere i turnisti sono persone relati¬vamente giovani, quindi con una tendenza ad un ritmo più lento rispetto a quello del loro orologio interno. In altre parole sarebbe oppor¬tuno fare un turno settimanale di giorno, poi uno la sera ed infine uno di notte. Questo dei turni rimane un problema molto grave, perché si è notato che oltre all’insorgere di vari disturbi c’è quasi sempre una caduta dell’attenzione, e di conseguenza, una maggiore possibilità di incidenti sul lavoro.
Dagli studi condotti da C. Creisler sul Corpo di Polizia di Fila¬delfia si è visto che, facendo turni di 18 giorni e spostandoli in senso orario, l’insonnia e la stanchezza diurna diminuivano, ma soprattutto diminuivano nettamente gli incidenti sul lavoro.
Accenneremo ora ad un’altra situazione analoga, che è la jet lag syndrome.
Questo disturbo è collegato ad un rapido passaggio di fusi orari che comporta uno sfasamento tra ritmo circadiano ed orario locale. È chiaro che quante più ore di sfasamento ci sono, tanto più è difficile il recupero del sonno. In genere, i viaggi verso ovest sono meglio tollerati perché si va incontro al giorno ed è quindi più agevole rimanere svegli e cercare di far coincidere il sonno con le prime ore della sera. Ad esempio, una persona che arriva alle 16.00 a New York, essendo partita dall’Italia ha il suo orologio interno alle 22.00. È chiaro che, anche a causa della fatica del viaggio, sarebbe tentata di andare a dormire subito con il rischio di trovarsi dopo 8 ore di sonno ben sveglia, solo che a New York sarebbero le 24.00. E chiaro quindi che il primo ed il secondo giorno è opportuno ritardare al massimo l’ora di addormentamento (circa di 5-6 ore) per poi svegliarsi alle 8.00 o alle 9.00 ora locale, e sopportare una giornata di relativa stanchezza.
Resistendo per 13-14 ore, si andrà a dormire intorno alle ore 22.00/23.00, che corrispondono ad una sincronizzazione del ritmo interno con quello esterno. Per distanze maggiori e soprattutto nei viaggi verso est, il problema è più complesso, perché si può arrivare a ritmi giorno/notte totalmente alterati. In questi casi è necessario un tempo di adattamento superiore ai 4 giorni: in genere la regola fondamentale è quella di svegliarsi al mattino, resistere al sonno quanto più è possibile. In altri termini, conviene riadattare il proprio ritmo interno con l’ora locale attraverso lo zeitgeber del risveglio.
Nei viaggi lunghi è sempre consigliabile bere molto perché, a causa della lunga permanenza in un ambiente ad aria condizionata come quello dell’aereo, può crearsi una disidratazione anche piuttosto grave che potrebbe complicare i problemi dell’insonnia.
È necessario sempre tener presente che il dato fondamentale rimane quello di svegliarsi al mattino e resistere al sonno durante la giornata.
Ci siamo limitati ad esporre solo quelle situazioni o quei problemi ove sicuramente c’è una possibilità di utilizzare una strategia di igiene mentale che abbia una base scientifica e quindi valida.
Complessivamente, dall’esame della letteratura emerge una nume¬rosa serie di consigli che sembrano dettati dal buon senso, a volte solo dalla fantasia, ma che non garantiscono un valido e sicuro riscontro sul piano operativo. 
 
Terapia farmacologica dell’insonnia

Il trattamento farmacologico dell’insonnia deve essere un atto medico pensato e controllato, mentre troppe volte si trasforma in un automatismo prescrittivo. La prescrizione e l’uso incongruo di farmaci, oltre a produrre spesso effetti collaterali indesiderati, può innescare un pericoloso circolo vizioso per cui l’uso di ipnoinducenti produce il giorno dopo effetti secondari quali stanchezza e difficoltà di concentrazione che vengono erroneamente interpretati come l’effetto della mancanza di sonno; ciò induce ad aumentare la dose del farmaco che a sua volta aggrava gli effetti del giorno dopo.
Senza dubbio, il pericolo più importante dell’abuso di una terapia farmacologica è che troppo spesso non ci si preoccupa abbastanza di trattare le eventuali patologie sottostanti, o le errate abitudini, di cui l’insonnia non è che il sintomo: disturbi psichici, malattie organiche, consumo di alcool o di farmaci, oppure pseudoinsonnie che potrebbero essere smascherate con un’anamnesi accurata. Frequentemente, l’insonnia non è che il sintomo di un disagio psichico sottostante, ed eliminare questo sintomo senza prima averlo capito e inquadrato non ci permette di risalire al conflitto psichico che eventualmente lo sottende, non lasciando la possibilità di gestire il disturbo se non con mezzi farmacologici. «La medicalizzazione dell’insonnia tramite un farmaco è una tappa da raggiungere solo dopo l’esame attento delle possibili alternative». Quindi occorre valutare attentamente, in primo luogo, se esiste veramente un’insonnia o se piuttosto non si tratti di una pseudoinsonnia; successivamente, se il disturbo dipende da cause ambientali, somatiche o psichiche, nel qual caso si potrà adottare, a seconda delle circo¬stanze, una terapia causale o sintomatica.
Comunque, per periodi limitati può essere utile proporre un inter¬vento con psicofarmaci che riducono l’insonnia.

LE BENZODIAZEPINE
A proposito del trattamento farmacologico dell’insonnia sarebbe bene non perdere di vista 4 punti fondamentali:

1) le circostanze in cui gli ipnotici possono essere presi in considerazione dal medico;
2) i fattori farmacologici da considerare nella scelta e nella selezione
dell’ipnotico;
3) i trattamenti appropriati e le strategie di impiego;
4) le principali precauzioni e i rischi associati alla prescrizione di
questi farmaci.

Prima di addentrarci in dettagli più tecnici e parlare delle caratteristiche e delle proprietà di questi farmaci, è interessante conoscere l’atteggiamento generale dei medici, ma anche dei pazienti, nei confronti degli ipnotici, o di altri farmaci prescritti per indurre il sonno: i risultati di una conferenza tenuta a Bethesda (USA) nel 1983 testimoniano un atteggiamento generale abbastanza conservativo nei confronti di questi farmaci. Infatti, benché i risultati mostrino che il trattamento è correlato con il grado e il tipo di insonnia, è degno di nota che il 90% delle persone definite come insonni gravi non faccia uso di farmaci prescritti. Questo vuol dire che dati la natura e l’estensione dell’insonnia, come pure legittimate le preoccupazioni circa l’ipermedicazione, la conclusione più importante è che i dati sul trattamento sembrano riflettere generalmente un comportamento conservativo da parte dei medici. Altri dati a testimonianza di una certa prudenza provengono dall’inchiesta circa i patterns d’uso di questi farmaci effettuata sempre all’interno dello stesso studio: gli utenti riportano un largo range di modalità d’uso, da una o due occasioni all’uso quotidiano per lunghi periodi di tempo, però tipicamente la durata dell’uso regolare è breve, e il numero di giorni totali ridotto. I dati mostrano che, tra tutti quelli che hanno fatto uso di ipnotici, il 74% ne ha fatto uso regolare per un periodo di tempo inferiore alle due settimane.
Un’altra osservazione che si può fare è che spesso l’insonnia non viene trattata fin quando non diventa grave: attualmente possiamo fare solo ipotesi sul perché così tanta gente con insonnia non riceva trattamento, o sulle alternative alle quali essa ricorre. Un’altra cosa strana è che, al contrario, una percentuale di persone che non riportano problemi di insonnia viene trattata, in particolare il 22% di quelli che hanno preso farmaci ipnoinduttori in passato non riferisce disturbi del sonno. Una spiegazione possibile è che in alcuni casi l’insonnia poteva essere secondaria a condizioni mediche o chirurgiche: in questo modo l’uso di ipnotici non è comprensibile se si tiene conto della larga scala di diagnosi per cui essi vengono prescritti e degli specifici propositi per cui vengono impiegati. Queste considerazioni aiutano a capire la ragione dell’alta percentuale di persone facenti uso di ipnotici che riferiscono problemi di salute.
Infine, oltre ai farmaci cosiddetti “sottobanco”, esiste una classe di farmaci di altro genere che vengono utilizzati per indurre il sonno: si tratta per lo più di antidepressivi e ansiolitici. Questo è del tutto normale se consideriamo il fatto che molto spesso l’insonnia presenta una forte associazione con disagi psichici, potendone questi essere l’effetto o la causa; da ciò si può capire l’importante ruolo di questi farmaci nel trattare l’insonnia che si presenta in combinazione con problemi di tipo psicologico.
Esaurita questa premessa, sono importanti alcuni richiami circa la natura e le modalità d’azione dei principali farmaci a carattere sedativoipnotico, cioè le benzodiazepine (BDZ).
Certamente le BDZ hanno rappresentato un enorme progresso nella terapia farmacologica dell’ansia e dell’insonnia; esse hanno sostituito i barbiturici come farmaci ipnotici di prima scelta. Va subito sottolineato che esse, a differenza dei barbiturici, non hanno effetto deprimente sul SNC, ed anche ad alte dosi raramente si associano a depressione del centro respiratorio e a collasso vasomotorio. Molto rara è anche una vera e propria dipendenza; inoltre, relativamente al tipo di sostanza, esse possiedono anche un’attività anticonvulsionante e miorilassante.
Il termine BDZ individua una serie di sostanze costituite da 4 parti ben distinte: BDZ: benzo-di-aza-epina, dove -epina indica una struttura ciclica formata da 7 atomi di carbonio con il massimo numero di doppi legami; di indica che gli atomi di carbonio sono due;: -aza indica che uno degli atomi di carbonio è stato sostituito con uno di azoto; - benzo- indica una struttura ciclica a 5 atomi di carbonio legata al gruppo diazepinico. La formula di struttura è completata inoltre da un anello fenilico in posizione 5.
Nel complesso queste molecole sono dotate di 5 proprietà: ansiolitica, miorilassante, antidepressiva, anticonvulsivante, ipnoinduttrice.
Per quanto riguarda la loro modalità di azione ci sono prove che il GABA (acido gamma-amino-butirrico), aminoacido con caratteristiche di neurotrasmettitore inibitorio, possa avere una funzione cruciale nei meccanismi di origine dell’ansia: ebbene, l’azione delle BDZ si esplicherebbe mediante l’interazione a livello di recettori, inizialmente considerati specifici per le BDZ, funzionamente connessi al sistema di neurotrasmissione gabaergico]. Ulteriori studi sulle caratteristiche di questi recettori hanno dimostrato l’esistenza di diverse subunità a differente distribuzione anatomica. Sono stati quindi individuati recettori BDZ1 a prevalente localizzazione encefalica: BDZ2 diffusi nell’ence¬falo e a livello del midollo spinale e BDZ3 presenti nell’encefalo e in organi periferici. Si è dunque chiarita la natura eterogenea dei siti recettoriali per le BDZ, e la differenziazione in tre sottotipi si pensa possa corrispondere ad una diversa condizione funzionale dello stesso recettore omega 1,2,3; inoltre si è potuto precisare che è la subunità omega 1 quella più direttamente coinvolta nei meccanismi di induzione e di mantenimento del sonno. Per quanto riguarda gli effetti delle BDZ sull’architettura del sonno, si è dimostrato che esse diminuiscono la latenza dell’addormentamento e lo stadio del sonno NREM più leggero. Molte aumentano la latenza del sonno REM, e la frequenza dei movimenti oculari in questa fase viene diminuita. Anche se le BDZ causano una riduzione del tempo di sonno REM, il numero dei cicli REM risulta aumentato
Metabolismo: è noto che alcune BDZ presentano metaboliti comuni e che il processo di metabolizzazione comporta in genere dismetilazioni e ossidazioni comuni a livello epatico.
Tra i metaboliti più frequenti troviamo l’oxazepam e il desmetildiazepam, che sembrano essere tappe obbligate della degradazione della maggior parte delle BDZ, ma non di tutte; infatti alcune vengono semplicemente coniugate con acido glucoronico del fegato.
È chiaro che questo ha importanti riflessi nella scelta del farmaco: infatti alcune BDZ si trasformano quasi immediatamente nei loro metaboliti, mentre in altre la trasformazione risulta essere più lenta, influendo necessariamente sulla vita media di cui parleremo tra poco. Tra l’altro, questa trasformazione ha anche altre implicazioni; infatti sarebbe bene, nella pratica clinica, dare la preferenza alle BDZ cosiddette autospecifiche, cioè a quelle che hanno bisogno di intermediari metabolici: ciò vale soprattutto per i trattamenti prolungati, allo scopo di evitare fenomeni di induzione degli enzimi epatici che alla lunga possono tradursi in una inefficacia terapeutica (tolleranza).
Il tempo di emivita plasmatica è un altro parametro da tenere in considerazione quando si intraprende una terapia farmacologica: con questo termine si suole fare riferimento al tempo che impiega la concentrazione plasmatica del farmaco per ridursi al 50%. Le varie BDZ si classificano in base alla loro emivita o tempo di dimezzamento plasma¬tico in long-acting, intermediate-short, ultra-short.
Le BDZ a lunga emivita (circa 24 ore) raggiungono, per fenomeni di accumulo, la massima attività dopo alcuni giorni di somministrazione ripetuta. Prese di sera come ipnotici danno, a volte, luogo il giorno seguente a sedazione, a torpore, disturbi del movimento, ideazione rallentata. Vengono utilizzate quando si deve combattere un risveglio precoce e quando si vuole controllare uno stato ansioso che persiste nelle ore di veglia. Danno raramente insonnia rebound alla sospensione del trattamento; si associano ad un rischio di assuefazione minimo e permettono una somministrazione intermittente Le BDZ a emivita intermedia danno più facilmente fenomeni rebound e presentano un rischio di assuefazione maggiore. La loro azione si esplica fin dalla prima assunzione, ma si riduce col tempo. Il trattamento non può essere intermittente perché è pressoché costante un’insonnia rebound da interruzione. Le BDZ a breve emivita sono considerate di prima scelta quando l’insonnia è un fenomeno episodico per il quale un trattamento di pochi giorni è sufficiente.


CLASSIFICAZIONE DEGLI IPNOTICI IN BASE AL TEMPO DI ELIMINAZIONE
Descrizione

Ipnotici a lunga durata di azione, la cui attività persiste il giorno successivo, a causa dell’effetto residuo o di accumulo delle dosi giornaliere (eliminazione lenta)
Ipnotici a durata d’azione intermedia, con possibilità di effetti residui il giorno successivo, dovuti all’accumulo delle dosi giornaliere.
Ipnotici a breve durata d’azione, privi di effetti residui il giorno successivo e di accumulo delle dosi giornaliere (a rapida eliminazione o con marcata fase di distribuzione ed eliminazione relativamente rapida).

Composto Emivita
Flunitrazepam (20-30 h)

Flurazepam (40-150 h)
Nitrazepam (15-38 h)
Lormetazepam (10-12 h)

Temazepam (8-12 h)
Triazolam (1,5-5 h)
Brotizolam (3-6 h)
Zopiclone (5-6 h)


Un altro parametro farmacocinetico da non trascurare è il tempo di assorbimento, che per le diverse BDZ è variabile da una a quattro ore (in media 1-2 ore): diciamo che in questo tempo viene raggiunto un picco plasmatico che corrisponde anche a un massimo di azione sul SNC, dopo di che le BDZ vengono distribuite in altri tessuti (muscoli, tessuto adiposo) con conseguente diminuzione della funzione sedativa.
Un’ulteriore distinzione può essere fatta sulla base delle proprietà prevalentemente sedative o ipnotiche, ma è anche vero che qui il discorso si fa aleatorio. Possiamo solo dire che in generale si può considerare una sostanziale equivalenza clinica di tutte le BDZ, invalidando in gran parte la differenziazione tra composti sedativi e ipnotici.
Dimostrazione di ciò è il fatto che il lorazepam e l’oxazepam, dapprima immessi sul mercato come ansiolitici, possiedono, a dosaggi superiori, efficacia come ipnotici Quindi la distinzione tra BDZ a effetto ansiolitico, e BDZ a effetto ipnotico, ha poco senso e non è sostenuta da dati clinici e sperimentali validi.
Alla luce di questi dati la scelta della BDZ dipende da una serie di criteri abbastanza precisi; in particolare deve tener conto del tipo di effetto che si vuole ottenere (ad es., in certi casi può essere necessaria anche una sedazione diurna), dell’età e delle condizioni cliniche del paziente, della durata della terapia. Se si vuole ottenere un effetto sedativo anche durante il giorno, nei casi in cui sia presente una forte componente ansiosa, sarà bene utilizzare una BDZ a lunga o intermedia durata d’azione, che subisce una trasformazione in prodotti intermedi, i quali durante il giorno siano ancora capaci di esplicare un’azione ansiolitica (diazepam, flurazepam, prazepam). Al contrario, se si vuole ottenere un effetto ipnoinducente rapido, è meglio usare BDZ a breve emivita, come triazolam, oxazepam, lorazepam. In particolare queste ultime due, insieme all’alprazolam, sono glucuronate a livello epatico e non possiedono metaboliti attivi, per cui possono essere agevolmente usate anche in pazienti anziani, senza che si verifichino fenomeni di accumulo con i relativi effetti sedativi in seguito a somministrazioni ripetute.
I vari autori sono abbastanza d’accordo sugli schemi di trattamento: una terapia con BDZ deve essere mirata e soprattutto svolgersi in un periodo di tempo relativamente breve. Infatti è nota pressoché per tutte le BDZ la possibilità che si instauri una tolleranza agli effetti ipnoinducenti nel giro di tre o quattro settimane ed è per questo che sarebbe opportuno usare i farmaci cosiddetti autospecifici, cioè senza intermediari metabolici, per evitare un effetto induttivo sul sistema enzimatico epatico (come nel caso del diazepam) che nei trattamenti prolungati può tradursi appunto in tolleranza.
Gli schemi di trattamento, quindi, hanno una durata di 4 settimane o meno, e il farmaco viene somministrato continuativamente per 7-10 gg cui seguono 2-3 gg di riposo
Uno schema di questo tipo evita lo sviluppo di una tolleranza nei confronti degli effetti ansiolitici. I farmaci a breve emivita vengono prescritti in schemi che prevedono 3-4 assunzioni giornaliere, mentre le sostanze a lunga emivita vengono somministrate in dose unica o al massimo in due dosi giornaliere.
La paura che si instauri una dipendenza in seguito all’uso di questi farmaci, che spinge in molti casi il paziente a non prenderne, è in effetti poco giustificata, per cui queste persone continuano a soffrire di insonnia per paura di “abituarsi”.
Questo è un argomento in cui purtroppo è facile fare una certa confusione: infatti c’è la tendenza, parlando di tolleranza e di dipendenza, a scambiare tra di loro i due termini. Nei trattamenti prolungati la tolleranza, e la conseguente tendenza ad aumentare le dosi, vengono aggirate con particolari stratagemmi terapeutici di cui abbiamo parlato, ma il discorso sulla dipendenza è diverso.
Va premesso che per le BDZ si deve distinguere tra una dipendenza psicologica e una fisiologica, per gli inglesi rispettivamente habituation e addiction: il rischio di una dipendenza fisiologica, quando queste sostanze vengono utilizzate in modo inappropriato, è molto basso; quelli che però possono contribuire all’instaurarsi di una dipendenza psicologica sono i sintomi da interruzione, che naturalmente sono più pesanti quanto più è massiccia l’assunzione. Infatti è stato riportato che circa il 40-50% dei pazienti in trattamento cronico con BDZ presenta alla sospensione sintomi d’astinenza quali mialgie, agitazione, acatisia, insonnia e disforia ansiosa generalizzata Nei pazienti con disturbi d’ansia si potrà osservare un’ansia rebound, ma ciò è controllabile se il farmaco viene sospeso con gradualità o se si prendono BDZ a lunga emivita.
Il rischio di questa sindrome da sospensione aumenta parallelamente alla durata del periodo di assunzione e viene descritta specialmente in pazienti trattati per un anno o più. I sintomi possono insorgere dalle 24 alle 48 ore o 4-6 gg dopo la sospensione a seconda del tipo di BDZ usato, se a corta o lunga emivita, ma regrediscono nel giro di 1-2 settimane]. Se si attua una sospensione graduale in 3-4 settimane, il rischio potrà essere minimizzato. Indubbiamente la paura di dover passare attraverso questi sintomi da interruzione, insieme a quella di non dormire, spinge il paziente a prolungare la durata dell’uso del farmaco, anche perché il meccanismo psicopatologico che porta all’uso prolungato dei tranquillanti è dato dalle stesse motivazioni che stanno alla base dell’impiego terapeutico, soprattutto dall’attenuazione di una reazione emotiva scatenata da un conflitto psichico che è alla base dell’abuso. In caso di impiego non oculato o prolungato, tensioni e paure vengono attenuate per situazioni insignificanti o a scopo preventivo, tanto che poi non sono più percepibili le dinamiche conflittuali che ne sono alla base e che quindi non possono essere risolte.
Naturalmente, con dosi giornaliere superiori a 3-5 volte i comuni regimi terapeutici, insorgerà una sindrome da deprivazione molto simile a quella di tipo barbiturico: irrequietezza, stati d’ansia, disturbi del sonno, segno di ipereccitabilità del SNC fino alle convulsioni.
Salvo la possibilità che si instauri una dipendenza di tipo psicologico, le BDZ non presentano altri effetti collaterali, a parte alcuni che vengono definiti minori, quali sedazione, una lieve compromissione cognitiva, impaccio motorio con una certa diminuzione delle capacità reattive e, con alcune sostanze (lorazepam) riduzione specifica della memoria. Per la maggior parte si tratta di fenomeni dose-dipendenti, ma sono frequenti in persone con disturbi metabolici dovuti all’età o a compromissione epatica o renale
Un altro effetto collaterale raro ma sgradevole è la possibilità di risposte paradosse che si manifestano con comportamenti ossessivocompulsivi, soprattutto nei bambini o nelle persone in età avanzata; è sempre negli anziani che sono possibili episodi di atassia o di confusione mentale [5].
Infine non vanno trascurate alcune importanti controindicazioni all’uso di ipnoinducenti: insufficienza renale, cardiopatie scompensate, encefalopatia portocavale, assunzione abituale di alcool, anche nelle sue espressioni minori, russamento, forme di apnea notturna (le BDZ accentuano l’ipotonia muscolare che contribuisce all’ostruzione).

LE IMIDAZOPIRIDINE

A partire dall’inizio degli anni ‘80, studi condotti sulle caratteristiche dei recettori benzodiazepinici hanno dimostrato l’esistenza di diverse subunità a diversa distribuzione anatomica. Sono stati quindi individuati recettori omega 1, a livello encefalico; omega 2, presenti anche nel midollo spinale; omega 3, a sede periferica ed encefalica. Si pensa che questi tre sottotipi possano essere tre diversi assetti funzionali dello stesso recettore; in ogni caso sembra che la subunità omega 1 sia quella più direttamente implicata nei meccanismi di induzione del sonno. Questi dati hanno spinto la ricerca farmacologica in questi ultimi anni verso l’individuazione di molecole più selettive delle BDZ che, al contrario, non sono risultate essere estremamente specifiche e selettive.
Naturalmente queste nuove molecole dovevano avere un effetto terapeutico ipnoinducente esente da manifestazioni indesiderate, come il rilassamento muscolare e la sedazione, senza effetti residui sulla veglia diurna e senza vistose interferenze sull’architettura del sonno. L’individuazione delle imidazopiridine, come nuova classe di sostanze ad azione selettiva sulle subunità recettoriali omega 1, rappresenta una svolta interessante ai fini del controllo farmacologico dei disturbi del sonno. In particolare lo ZOLPIDEM si è dimostrato capace di un legame selettivo con il sito recettoriale omega 1 del sistema sopra reticolare gabaergico. Questa specificità di legame gli consente una netta differenziazione dal profilo farmacologico delle BDZ, mentre sul piano clinico si traduce in una riduzione del tempo di addormentamento, una valida protezione dai risvegli notturni e totale mancanza di effetti negativi sulle capacità psi¬comotorie e psicosensoriali al risveglio, senza alcuna attività sulla perfomance diurna. A differenza delle BDZ, inoltre, lo Zolpidem non produce aumento dello stadio II e riduzione degli stadi 3 e 4 o del sonno REM; possiede come le BDZ effetti anticonvulsivanti e miorilassanti, però questi si esplicherebbero a dosi superiori rispetto a quelle necessarie ad ottenere un effetto ipnoinducente, per cui sarebbe possibile ottenere un’azione sedativa scevra da effetti collaterali Questo farmaco non è gravato da fenomeni di tolleranza o di dipendenza e l’efficacia ipnoinducente si mantiene oltre le due settimane senza dover modificare i dosaggi, mentre non si verificano fenomeni di insonnia rebound alla sospensione del trattamento. L’emivita è molto breve (due ore e mezza) e l’assenza di metaboliti attivi evita effetti residui al risveglio.

ANTIDEPRESSIVI TRICICLICI
Questi farmaci, soprattutto quelli sedativi, come 1’amitriptilina o la doxepina, sono utili nel trattamento dell’insonnia secondaria a depressione maggiore.
Possono anche essere utili per il trattamento dell’insonnia associata a sindromi algiche, quali alcuni tipi di cefalee. Un loro uso più generalizzato nel trattamento dell’insonnia non è consigliabile, data l’alta incidenza di effetti collaterali: infatti molti pazienti non riescono a tollerare la sonnolenza, l’offuscamento del visus, la secchezza delle fauci e il malessere che spesso accompagnano il loro uso.
Comunque va detto che molti pazienti sofferenti di insonnia cronica presentano effettivamente forme depressive lievi, le quali possono trarre giovamento da una terapia a base di antidepressivi triciclici.
Gli studi hanno dimostrato la potente azione di questi farmaci nel sopprimere il sonno REM: alla sospensione della terapia, si può verificare un rebound, con un aumento del sonno REM che può indurre insonnia, eccesso di attività onirica con incubi [6].


NEUROLETTICI
I neurolettici sono farmaci di elezione nel trattamento dell’insonnia associata a mania o schizofrenia paranoide acuta. Basse dosi di questi farmaci sono inoltre ritenute utili per controllare gli stati di delirio notturno nelle insufficienze cerebrali senili. La sonnolenza diurna limita l’impiego dei neurolettici più sedativi, come la cloropromazina nel trattamento delle forme più comuni di insonnia situazionale. Come per i triciclici, molti soggetti non tollerano questi farmaci.

ANTISTAMINICI
Gli antistaminici sedativi sono comunemente usati per indurre il sonno. La deferidramina ed il metaprilene fanno spesso parte di specialità da banco vendute come ipnotici, anche se le loro proprietà ipnotiche non sono state ancora adeguatamente studiate. Tuttavia un piccolo numero di sperimentazioni cliniche indica che gli antistaminici possono migliorare il sonno nei pazienti con insonnia lieve o moderata, almeno per alcune notti [6].

Bibliografia:
[1] FRIEHEL V., Dormire senza problemi, Soleverde, 1991, Torino.
[2] HAURY P., LINDE S., Vincere l’insonnia, Boringhieri, 1992, Torino.

BARUCCI M., Il sonno e le insonnie, UTET, 1991 Torino.
BELLANTUONO C., BALESTRIERI M., «Il fenomeno della dipendenza da benzodiazepine: rilevanza clinica e strategie di prevenzione», Riv. di Psich. 24: 123, 1989. Cit. in BARUCCI M., Il sonno e le insonnie, UTET 1991, Torino.
FULGRAFF G., PALm D., Farmacologia e terapia clinica, Ed. Ensi, 1986.
MAMELAK M., «I disturbi del sonno: come e quando intervenire», Psichiatria e medicina, 5: 37-49, 1989.
MELLINGER G.D., BALTER M.B., UHLENHUT E.H., «Insomnia and its treatement», Arch. Gen. Psych. 42: 225-232, 1985..
SYNTHELAB L., «Zolpidem: capostipite delle imidazopiridine, un nuovo farmaco per affrontare l’insonnia», Medicina 7: 19, 1991.

 

Domande & risposte

Circ un anno nn riesco a dormire serena capita spesso di svegliarmi e mangiare tutti quello ke trovo . Oltre ad aumentare il peso anke il nervosismo di ogni giorno .
In merito al suo quesito, sarebbe utile conoscere la sua età e sapere da quanto tempo sono presenti i disagi di cui parla, inoltre comprendere se sono comparsi o meno contemporaneamente. Per i disturbi del sonno è senz’altro utile, come primo necessario passo, osservare delle regole di “igiene del sonno” ovvero attuare comportamenti e condurre uno stile di vita che favoriscono l’addormentamento e la continuità del dormire (es: praticare sport, evitare cibi eccitanti, tenere orari stabili etc.). Per quanto riguarda l’associazione con il disagio alimentare, seppure le informazioni che fornisce sono limitate, ritengo sia utile per lei approfondire alcuni aspetti di carattere psicologico attraverso una consulenza.
In termini generali, le difficoltà di cui parla sono entrambe legate al tema del “controllo”: mangiare senza controllo e, all’opposto, non riuscire a perdere il controllo, abbandonandosi al tempo del sonno. Questi ed altri aspetti dovrebbero essere oggetto di riflessioni più approfondite per esplorare la dimensione emotiva, cognitiva e relazionale che accompagna le sue esperienze quotidiane.

Cordiali saluti

Dott.ssa Laura Auricchio
psicologo psicoterapeuta
www.motusoperandi.com
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