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rifiuto del ciboAnoressia e rifiuto del cibo: oltre i luoghi comuni

L’anoressia, sofferenza così diffusa e “chiacchierata” negli ultimi decenni è un male del nostro tempo? Il crescente aumento di questo disagio psichico e anche la sua maggiore divulgazione da parte dei media ci fa ritenere che il rifiuto del cibo sia una “malattia moderna”. 

In realtà l’anoressia già veniva descritta verso la metà del XVI secolo da S. Porta. Unitamente al sintomo più appariscente che era il rifiuto del cibo, venivano descritti altri disturbi paralleli sia di tipo organico che psichico: depressione, bulimia, fobie, decadimento fisico, astenia, etc. Resta comunque, ancora oggi, un disturbo la cui diagnosi è molto delicata, spesso confusa con altri sintomi di tipo organico e anche psicologici.

Anoressia e bulimia sono la stessa malattia?

Mentre l’anoressia è caratterizzata dal rifiuto del cibo, la bulimia (la sua radice greca significa “fame da bue”) è un aumento esagerato del bisogno di mangiare. Nonostante esse siano comportamenti alimentari contrapposti, spesso compaiono insieme come manifestazione dello stesso disagio psichico.

Sono soltanto le donne a soffrire di anoressia?

Nella grande maggioranza sì, sono le donne quelle in cui è più presente il rifiuto del cibo. E’ in aumento comunque anche il numero dei maschi che soffrono di questo disagio.

E’ vero che le madri sono “colpevoli” di questo rifiuto del cibo?

La madri non sono mai “colpevoli”. Per essere colpevoli di qualcosa è necessario prima di tutto consapevolezza e intenzione e le madri non sono mai coscientemente determinate a recare danno al proprio figlio. Esiste un filone della letteratura psicologica (molto evidente per quanto riguarda, per esempio, l’autismo negli anni passati) tendente a fare cadere sul loro capo (delle madri…) la colpa dei disagi psichici dei figli, con conseguenze molto negative su un’intera generazione di madri. Oggi si tende di più a sottolineare la unicità di ogni individuo che viene vista come il risultato di un’interazione “unica e irrepetibile” tra il suo bagaglio genetico innato e le condizioni ambientali. L’individuo può, e deve, arrivare ad essere l’artefice di se stesso e del proprio destino.

Che significato può avere questa sofferenza psicologica, in un determinato momento della vita dell’individuo?

Con il rifiuto del cibo nell’anoressia viene messo in risalto il rapporto della persona con il cibo in tutta la sua valenza affettivo-simbolica. Il cibo non rappresenta soltanto il nutrimento organico da cui traiamo energia per il nostro metabolismo vitale, ma acquisisce particolari significati: si carica di  affettività, di ambivalenze, di paure e desideri profondi. Può diventare il fulcro della nostra vita nel suo doppio significato di nutrimento-vita o di veleno-cibo avariato, inquinamento-morte. Il cibo si fa  veicolo di potenti messaggi simbolici e il rifiuto del cibo diventa un modo per comunicare emozioni profonde: il desiderio di  “ascesi”, di spiritualità, di pulizia, di autenticità, il rifiuto di questo mondo sporco, inquinato… il rifiuto del mondo degli adulti, il rifiuto della sessualità etc.

Nella bulimia, al contrario, il cibo deve riempire un vuoto affettivo, antico quanto la nostra stessa esistenza, incolmabile. Il nutrirsi diventa un gesto intriso di speranze e di ambivalenza, un tentativo estremo e sempre frustrato di saziarsi finalmente di “amore”.

Come si può guarire dalla anoressia?

Più che di “guarigione”, preferirei parlare di evoluzione da una situazione non più attuale e quindi resa insostenibile che attraverso il sintomo del rifiuto del cibo chiede e pretende un cambiamento. Questa evoluzione passa attraverso una maggiore consapevolezza di se stessi e del profondo significato di questo disagio.

Il cibo ci fa venire in mente il nostro corpo, il suo limite e precarietà così come tutto ciò che lo riguarda: bellezza, bruttezza, accettazione, rifiuto, carezze, amore, sessualità, peccato…. tutta la nostra “ombra”, che nel linguaggio junghiano significa il contenitore di tutto ciò che in noi viene considerato “negativo”.

“L’insostenibile leggerezza” di chi inconsciamente rinuncia alla propria dimensione carnale deve incontrare questa “ombra”, nel senso della “pesantezza” del proprio corpo, la sua “incarnazione”, la sua identità sessuale ed i suoi “peccati”. Accettare il proprio destino di creatura “carnale.”

Articolo a cura di
Virginia Salles, Psicologa-psicoterapeuta di Roma
www.virginiasalles.it

Link utili sull'autrice: 
http://www.centrostudipsicologiaeletteratura.org/

 

 

 

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