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Disagi alimentariQuando il mangiar sano diventa una malattia

 Che cosa si intende con il termine "ortoressia"? Chi è l'ortoressico e da quale disagio alimentare è affetto? Ce ne parla il prof. Giuseppe Ruffolo, medico-chirurgo specialista in Psichiatria presso l'istituto di Scienze del Comportamento

                                               

                                                                               A cura di Giuseppe Ruffolo

Il termine “ortoressia” (dal greco “orthos” [corretto, giusto] e “orexis” [appetito]), peraltro ancora poco noto, è applicabile a coloro i quali mostrano un’attenzione francamente esagerata, ossessiva, per la genuinità dei cibi di cui si nutrono. Dunque, se nell’anoressia e nella bulimia nervose il problema è la “quantità” del cibo, nell’ortoressia il nucleo del problema sarebbe da ricondurre alla “qualità” degli alimenti. A teorizzare l’esistenza di questo disturbo è un dietologo americano che pratica la medicina alternativa, Steven Bratman: negli Stati Uniti il suo libro sul tema, Health Food Junkies, è divenuto rapidamente un best seller. La crescente sensazione di “insicurezza alimentare” diffusasi attraverso i mass media che hanno sottolineato ampiamente i rischi derivanti dalla non genuinità di alcuni cibi (morbo della “mucca pazza”, pesce al mercurio, polli alla diossina, frutta contaminata da pesticidi, alimenti transgenici, aviaria etc.) ha fatto sì che molti consumatori si orientassero verso la ricerca di alimenti ritenuti “sani” ed “incontaminati”. Bratman sostiene che noi tutti siamo consapevoli del fatto che mangiare “sano” è salutare tuttavia, alcuni, avrebbero iniziato a farlo con modalità ossessiva, al punto da condizionare negativamente il proprio comportamento e le proprie relazioni. Si ipotizza lì esistenza di forme ortoressiche “attenuate” caratterizzate, ad esempio, dal fatto che i soggetti affetti eviterebbero di mangiare al bar o al ristorante o rifiuterebbero inviti a casa di amici per l’impossibilità a poter controllare le caratteristiche organolettiche dei cibi; a queste forme se ne affiancherebbero altre, più impegnative ed invalidanti, nelle quali la paura di mangiare cibi non genuini sarebbe tale da far sì che il soggetto possa ridursi anche alla fame. Nelle forme più gravi l’ortoressico modificherebbe radicalmente il proprio modo di vivere e di alimentarsi, si isolerebbe per difendersi da coloro che non si curano di quelli che lui considera “pericoli alimentari”, magari irridendolo per le proprie, radicate, convinzioni. Dunque, l’ortoressico più esasperato vivrebbe in uno stato di perenne pericolo ed allarme che riuscirebbe a superare nella convinzione, non suscettibile di critica alcuna, che le sue scelte sono giuste ed irrinunciabili. Un altro aspetto che viene sottolineato è quello secondo il quale, in considerazione della diretta proporzionalità esistente fra qualità e genuinità dei cibi da una parte ed elevati costi di produzione dall’altra, l’ortoressia sarebbe da considerare essenzialmente come una malattia del benessere, delle classi sociali medio-alte: non a caso avrebbe “contagiato” diversi membri dello star system hollywoodiano. E’ evidente che un regime alimentare ortoressico “rigido” e “persistente” può produrre conseguenze negative sul versante fisico in considerazione del fatto che l’apporto dei diversi nutrienti risulterà inevitabilmente disomogeneo derivandone così uno sbilanciamento nei costituenti essenziali (proteine, carboidrati, grassi, sali minerali, vitamine); avitaminosi, osteoporosi, arteriosclerosi, modificazioni dei valori pressori fisiologici sarebbero alcune fra le possibili complicazioni di questa estremizzazione alimentare. Va sottolineato che alcuni esperti del settore criticano più o meno ampiamente le teorie esposte da Bratman e negano che l’ortoressia possa, almeno al momento, essere considerata come una nuova forma di disturbo alimentare. E’ tuttavia innegabile che il fenomeno esiste e per tale motivo sarà utile condurre studi sistematizzati alfine di precisarne meglio le diverse caratteristiche (etiopatogenetiche, cliniche, di comorbidità, terapeutiche etc.); solo al termine di ricerche approfondite si potrà eventualmente attribuire all’ortoressia dignità di patologia dotata di propria autonomia in ambito nosografico.

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